Il lager di Leros a Monza; incontro con Simona Vinci

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Il Lager di Leros a Monza; Incontro con Simona Vinci.

 

Una delle prime recensioni apparse su questo blog, fra le più visualizzate e condivise, si intitolava Verità e speranza su disagio sociale, follia e diversità”, e il secondo paragrafo recitava testualmente così:

Il numero del 10 Settembre 1989 del settimanale The Observer, scatenava lo scandalo Leros: il mondo scopriva che su di una piccola isola greca, tra le mura screpolate di un manicomio lager, erano stati segregati e perduti per decenni migliaia di malati psichici, ma anche oppositori politici al regime dei colonnelli degli anni ‘60, o semplicemente gente comune non voluta, non amata e abbandonata a se stessa. E allora sì, è romanzo perché da questa vicenda reale, e traendo spunto dal rischioso reportage fotografico di un’allora giovane giornalista, Antonella Pizzamiglio, la Vinci costruisce una storia terribile e commovente sul disagio di vivere, su questo mondo a parte, parallelo, scuotendoci e turbandoci con l’umanità negata di uomini, donne, bambini senza nome o identità alcuna, privati di quell’unico bene che rende un essere, “umano“: la dignità.

Il libro in questione è La Prima Verità, appunto di Simona Vinci, vincitore non a caso del Premio Campiello 2016; non a caso perché, a mio parere, nell’anno passato non ci sono stati libri paragonabili per intensità, drammaticità e verismo, ma anche per la poesia che ne scaturisce e per il coraggio dimostrato dall’autrice nel calarsi in prima persona nelle tematiche instabili e delicate che vengono trattate in queste pagine indimenticabili.

Leros a Monza.

Mercoledì 12 Aprile l’incubo Leros è approdato all’Urban Center di Monza con una mostra fotografica di Antonella Pizzamiglio e l’incontro con Simona Vinci. Sono arrivato presto, ancora non c’era nessuno nella grande sala espositiva, e ne ho approfittato per dedicarmi alle fotografie; mi sono familiari devo dire, le ho viste molte volte in internet quando preparavo la recensione al libro, ma la familiarità e l’abitudine sono cose diverse, non ci si abitua mai alla sofferenza degli altri, forse più che alla propria, credo sia questione di empatia, di neuroni specchio troppo zelanti che non vogliono farsi mai i fatti loro… Fatto sta che tra il corpo nudo di una donna anziana, steso a terra nel mezzo di uno spiazzo polveroso, e un ritratto rugoso e provato, ma sorridente in modo disarmante, la mia collega Anna comincia a sospirare, e poi le esce un gemito facile da interpretare: “Io esco. Faccio una pausa”. L’accompagno, fuori c’è un bel sole caldo, aspettiamo su una panchina. “Ci vuole un occhio clinico, distaccato” le dico; facile a dirsi, se si pensa a cosa c’è dietro lo scatto, alla vita disgregata che abita quei corpi esposti e offesi, se si lascia l’immaginazione vagare, e spazio all’immedesimazione, è finita, non lo sopporti.

Amore disinteressato per la cultura.

Ma veniamo all’incontro finalmente, la sala si riempie velocemente e poco prima di cominciare abbiamo il piacere di conversare con il Signor Crocetti, mecenate e gentiluomo d’altri tempi al cui cospetto Anna fatica a trattenere l’emozione; gentilissimo, e con pacata amarezza, ci parla dello stato disarmante in cui versa la cultura italiana, e dell’opportunismo degradante caratterizzante le istituzioni che della cultura dovrebbero prendersi cura, incapaci invece di una vera lungimiranza sganciata dai meri fini politici. Se si pensa a quanta poesia si è potuto conoscere fuori dai confini greci grazie all’impegno ostinato di quest’uomo gentile, si arriva alla conclusione che al fondo delle cose si giunge con passione, costanza e fede, e non sgomitando e alzando la voce.

Il viaggio alla scoperta della sofferenza è senza ritorno.

Poi arrivano Antonella e Simona, con i ricordi, le parole, per non dimenticare chi di parole e voce non ne ha più o non ne ha mai avute. Una frase bellissima di Antonella mi resta in testa a frullare come un uccello in gabbia, è così vera ed evidente: alla domanda sul suo ritorno-fuga da Leros, ai tempi del suo servizio fotografico, su come si era sentita, lei risponde che non si torna da una cosa così… Ma quanto è vero, quando ti scontri col reale dell’altro, con la sua anima esposta che non sa difendersi o coprirsi né con stracci né con parole, e non la rifuggi ma ti ci immergi e fai coinvolgere, da questa condivisione non c’è ritorno, non c’è più una casa che possa tener fuori l’umanità dell’altro.

La ricerca come risposta al disagio.

Simona Vinci nega di aver deciso quale argomento trattare; individua l’origine del suo libro in un momento della sua vita carico di disagio e domande senza risposte, a cui fa seguito un periodo di ricerche, anche in internet, dove si imbatte nella testimonianza di un volontario che ha operato in manicomio, e da qui conosce Leros e la questione che da locale diventa collettiva in un’Unione Europea ai suoi esordi sul panorama internazionale. Le fotografie di Antonella sono per Simona più eloquenti e immediate di qualunque parola scritta o pronunciata, e da lì il bisogno, più che l’idea, di trasferire il tema del disagio interiore in un contesto ben preciso dandogli la forma narrata del romanzo, con personaggi in parte di fantasia ma così verosimili da riuscire a rendere in modo ancor più concreto la realtà della vicenda greca e degli istituti psichiatrici in generale. Ammetto la soggezione che mi incute Simona Vinci, come capita spesso a chi si trova di fronte una figura che stima e ammira, con la quale sente di avere una vicinanza di sensibilità e condivisione di contenuti; per questo forse il desiderio di apparire per quello che si è davvero e di essere riconosciuti da chi sentiamo affine, si muta in agitazione e nervosismo… Così i tanti quesiti che vorrei rivolgerle si perdono e cancellano in favore di una domanda banale che forse appare anche pretenziosamente premurosa circa il suo stato di salute interiore. Lei sorride, e gentile risponde con una verità che più ovvia non potrebbe apparire, ovvero che il disagio non è una malattia da cui si guarisce, ma una realtà che nasce da una diversa sensibilità e percezione del reale e dell’esserci, con il suo senso a volte evidente e più spesso invece sfuggente, e che ci si convive con alti e bassi, imparando a conoscerla e a conoscere se stessi; infatti rivela che il nuovo lavoro in uscita tratterà il medesimo tema, e rappresenterà un ideale capitolo ancora non scritto del libro premiato col Campiello.

La creazione come lenimento al dolore.

Per lei, rivela, scrivere La Prima Verità ha avuto un effetto terapeutico, affrontare il lato oscuro con la creazione… Eccolo il concetto che avevo in mente e che non è voluto uscire, e la conferma che volevo da lei l’ho avuta senza nemmeno chiedere: la creazione artistica come ricerca, e nella sua risposta il lenimento al dolore; ma al tempo stesso, il malessere come motore alla ricerca e alla creazione artistica, che sia letteraria, fotografica, pittorica e quant’altro.

Ottimismo forzato su uguaglianza e salute mentale in Italia.

Quando le si contesta un presunto insistere sulla figura femminile come vittima designata della prevaricazione e della violenza, Simona risponde che la fragilità della donna è un dato di fatto che la rende naturalmente soggetta alla bruttura e alla prepotenza, e da qui esprime la condivisibile opinione che nonostante i pretesi passi avanti fatti negli ultimi anni in tema di tutela e uguaglianza fra i sessi, la condizione della donna in Italia come altrove è ancora soggetta a discriminazione evidente, e non solo in ambito lavorativo. E’ decisa Simona su questo punto, non va meglio di fatto, come non va bene sul fronte del disagio psichico che in realtà è in crescita nel nostro paese, e fondamentale è il coraggio di farsi aiutare. Tale disagio, che sia psichico o sociale, poco importa, perché il nemico principale in entrambi i casi è il pavido timore della gente per il diverso o l’incomprensibile, l’incapacità dei più di arrivare al fondo di chi si ha di fronte, al di là dello strumento corporeo che può apparire bizzarro o fastidiosamente inopportuno.

Lo sguardo libero dei bambini.

Oggi a Leros ci sono i profughi, le dinamiche sono le stesse, isolare il diverso e l’indesiderato… Gli ospiti bizzarri dei due istituti di Budrio che Simona incontrava quando era ancora bambina, li vedeva libera da pregiudizi, senza ghettizzarli come fanno i grandi, e una sua straordinaria caratteristica è che quello sguardo libero lo ha mantenuto anche una volta approdata al mondo adulto; i bambini ricorrono così spesso nei suoi lavori, se il loro sguardo libero fosse contagioso quanti passi avanti si farebbero verso coloro che hanno bisogno…

Il vivere, croce e delizia.

Una caratteristica dell’opera di Simona Vinci è la capacità di rendere la vita nell’interezza della sua complessità, ovvero la sua inclemente durezza e la sua luminosa meraviglia; la sofferenza narrata ne La Prima Verità, è accompagnata, quasi cullata e lenita da immagini di grande bellezza e da poesie commoventi che Simona ci svela di aver scritto di suo pugno, in omaggio al grande poeta Ritsos. Questo, forse, dobbiamo ricordarci, quando ci sembra di non farcela: che la vita è anche poesia, e quando il buio non sembra volerci lasciare, dobbiamo avere fiducia, perché alla fine i suoi versi sorgeranno insieme alla luce.

Luca

 

⬇️Leggi la recensione de – La Prima Verità –

Verità e Speranza su Disagio Sociale, Follia e Diversità