Dagli indiani al petrolio, la grande epopea d’America

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Dagli Indiani al Petrolio, la Grande Epopea d’ America – Il Figlio – di Philipp Meyer.

 

Nella mia personale classifica dei libri preferiti non posso non includere Il Figlio, di Philipp Meyer: un racconto poderoso ed epico, una saga famigliare incastonata nella storia dell’ America, con la sua grandezza, i suoi spazi immensi e la pochezza di coloro che ci si sono trovati e persi. Il Figlio racconta la nascita di quel grande paese che divenne potenza mondiale, partendo da un’ingiustizia, la sottrazione della terra, e arrivando allo sfruttamento del sottosuolo e dei colossali giacimenti petroliferi che custodisce; in questo viaggio, l’autore ci conduce assieme ai McCullough, pionieri e poi allevatori, raccontandoci le loro peripezie nei decenni, fino ad arrivare ai nostri giorni e all’impero petrolifero con il quale il loro coraggio, non meno che i loro peccati, li avranno premiati.
Dopo il successo di Ruggine Americana, Meyer scrive un romanzo ambizioso e di ampio respiro, una grande epopea americana dall’Ottocento ai giorni nostri, ovvero dai primi coloni che strappavano agli indiani quelle che ancora erano le verdi praterie del Texas, fino alla spropositata ricchezza che il petrolio regalò poi ai nuovi ricchi di un’ America molto diversa… E’ la storia cruda e spietata di una famiglia che, di generazione in generazione, si affranca e poi ricade, si rialza e cade ancora, consapevole di non potersi sottrarre alle leggi della sopravivenza, quelle che vedono il più debole soccombere e il più forte prevalere: le antichissime tribù annientate dagli indiani, gli indiani dagli americani e così via, nella poco edificante consapevolezza che tutto quel che raggiungiamo e possediamo nella vita, lo abbiamo sottratto a qualcun altro. Western ma non solo, Il Figlio è un romanzo storico magistralmente scritto, disincantato e dall’irresistibile fascino malinconico.

La storia la fanno i vincitori; l’ America brutale dei pionieri.

Immaginiamo le grandi praterie calpestate da mandrie colossali di bisonti, uno stato di natura che la cosiddetta civiltà spazzerà via in pochi decenni, con la prepotenza, ma anche con il coraggio e l’istinto primordiale della sopravvivenza, che impone di prevalere sugli altri per garantire ai propri cari protezione e benessere. Censurabile o no questo è l’uomo, l’uomo bianco in questa specifica storia del mondo, che nelle terre del Texas lotterà e ucciderà per scacciare gli indiani, appropriarsi delle lande sterminate per installarci ranch popolati da eserciti di Vaqueros.

Ho visto tra le fiamme una forma scura che mi invitava ad avvicinarmi e con gran fatica le ho voltato le spalle e sono andato verso la luce del sole.

Eli è il patriarca dei McCullough, e l’epopea della sua famiglia comincia col suo rapimento ad opera dei Comanche, quando ancora è un bambino; da questo fatto il lettore comincia a respirare l’aria della sopravvivenza, della necessità di mangiare, scaldarsi e respirare, comincerà a mollare la presa sulle istanze morali di giustizia e carità, abituandosi a vedere la priorità del salvarsi la pelle su qualunque altra. Questo insegnamento diverrà per Eli, e per tantissimi come lui, un modus vivendi e, tornato in età adulta nella società dei bianchi, diverrà la base di tutti i suoi successi, illeciti o meno, dalle prevaricazioni nei confronti dei messicani, ai traffici orchestrati durante la Guerra Civile. E se a volte una generazione crede in qualcosa di diverso, come capita al figlio Peter, se aspira a un ritorno al passato, ai vecchi stili di vita, senza il liquido nero che inzuppa la terra, e soprattutto senza l’ingiustizia che la dissangua, il suo schierarsi con i più deboli apparirà agli occhi del lettore un’eroica quanto inutile lotta contro i mulini a vento, lasciandolo immalinconito, e illanguidito nel rammarico della consapevolezza che la storia la fanno i vincitori e non i romantici:

Non c’è niente di sbagliato in mio padre: lui è l’uomo allo stato naturale. Il problema sono quelli come me, che speravano di sollevarsi dalla nostra condizione istintiva. Speravamo di trascendere la nostra natura.

Viaggio malinconico nella storia eroica e crudele che ha forgiato un paese e il suo popolo.

Paesaggi meravigliosi, terre selvagge e temibili tribù, usanze incomprensibili e violenza cruda perpetrata come una naturale necessità, con l’uso dei flashback, Il Figlio ci trasporta in un’altra epoca, senza però allontanarsi dalla nostra; dagli albori di un grande paese, Meyer ci riporta infatti all’oggi, all’anziana e malata pronipote di Eli, Jeanne, a capo di un impero petrolifero che si è mangiato l’ America di una volta, eclissando nell’oblio del tempo l’eroismo e la ferocia di coloro che quel paese lo costruirono, e il sottile confine che spesso, fra eroismo e ferocia, diviene impalpabile. La malinconia che pervade le pagine di questo libro invece, palpabile lo è eccome, ci si sente vicini alle bistrattate istanze morali che animano i perdenti, e al tempo stesso non si può non avvertire l’ineluttabilità della violenza, dell’imporsi in un mondo duro e rozzo che se non affrontato con la medesima durezza, in un attimo ti stritola, lasciando di te forse solo un ricordo ancor meno che fugace… Riuscirà Jeanne, divorata dalla malattia della memoria, a trarre un sunto, dagli sprazzi del passato che le sovvengono e svaniscono, di quel grande affresco contraddittorio, brutale e maestoso, che è stata la sua famiglia e l’ America stessa?

C’erano francesi e scozzesi, conti e duchi in giacca a coda di rondine, yankee altezzosi con la faccia lustra come uno specchio nuovo. Strapagavano i pascoli, strapagavano il bestiame, strapagavano i cavalli, cercavano di mettersi al passo con noialtri. Intanto le praterie a sud erano già un deserto. Metà dei bovari erano uomini di Harvard con i calzini in filo di Scozia, le pistole ordinate per corrispondenza. Erano venuti all’Ovest per crescere insieme al territorio. O meglio, per vederlo morire. Ero prigioniero di quello che avevo creato e che mi stava distruggendo, tenevo più a quelle bestie che a mia moglie e ai miei figli.

Raramente utilizzo certe definizioni nelle mie recensioni come nei miei giudizi, ma in questo caso non posso esimermi dal definire Il Figlio un capolavoro letterario, un romanzo storico affascinante e colto, un saggio antropologico e sociologico sulla storia dell’uomo, a volte brutale e altre romantica, ma sempre e comunque puntuale e veritiera; Il Figlio è un viaggio magnificamente scritto tra passato e presente, in cui perdersi, in accecanti paesaggi e nelle domande sull’esistenza e sul modo in cui viverla, un viaggio da cui si fa ritorno cambiati e immalinconiti, carichi di uno struggimento a cui non si sa dare una risposta, ma che solo chi ha vissuto una vita intera, voltandosi indietro, riesce ad avvertite.

Luca

 

 

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paginerecensioni-epopea-America-copertinaIl figlio
Philipp Meyer
Editore: Einaudi
Anno 2014
Pagine 553|Rilegato
€17,00
ISBN9788806212087

 

 

La trama.

Dalle grandi praterie popolate da immense mandrie di bisonti, agli sterminati ranch di proprietà di un pugno di allevatori che regnavano come monarchi su schiere di vaqueros, al paesaggio arido e desolato punteggiato dalle torri dei campi petroliferi, la storia del Texas occidentale è la storia di un susseguirsi di massacri, la storia di una terra strappata di mano piú e piú volte nel corso delle generazioni. E inevitabilmente anche la storia dei McCullough, pionieri, allevatori e petrolieri, è una storia di massacri e rapine, a partire dal patriarca Eli, rapito dai Comanche in tenera età e tornato a vivere fra i bianchi in età adulta, per diventare infine, sulla pelle dei messicani e grazie ai traffici illeciti fioriti nel caos della Guerra Civile, un ricchissimo patron. Ma se Eli McCullough, pur sognando la wilderness perduta, non esita ad adattarsi ai tempi nuovi calpestando tutto ciò che ostacola la sua ascesa, suo figlio Peter sogna invece un futuro diverso, che non sia quello del petrolio che insozza la terra e spazza via i vecchi stili di vita, e non può che schierarsi con passione dalla parte delle vittime. La storia, però, la fanno i vincitori, ed ecco allora Jeanne, la pronipote di Eli, magnate dell’industria petrolifera in un mondo ormai irriconoscibile, in cui di bisonti e indiani non c’è piú neanche l’ombra, e i messicani sono stati respinti al di là del Rio Grande. Toccherà a lei affrontare un tragico e inesorabile ritorno del rimosso.

 

L’autore.

Philipp Meyer è cresciuto a Baltimora, nel Maryland. Dopo aver lavorato in un centro traumatologico, si è iscritto alla Cornell University, dove ha studiato letteratura inglese. Dopo la laurea, ha lavorato in banca, come operaio edile, e infine di nuovo in un ospedale. I suoi racconti sono usciti su The New Yorker, Esquire, McSweeney’s, Salon e l’Iowa Review. Ruggine americana (I coralli, 2010 ) è stato nominato Miglior libro del 2009 da The New York Times, dal Los Angeles Times e dall’Economist ed è stato inserito nella Newsweek’s list of Best Books Ever, Amazon Top 100 Books of 2009, Washington Post Top 10 Books of 2009. Philipp Meyer è stato selezionato da The New Yorker tra i 20 migliori scrittori sotto i 40 anni. Questo è il suo primo romanzo. È in lavorazione l’adattamento cinematografico per la regia di Walter Salles.

 

 

2 thoughts on “Dagli indiani al petrolio, la grande epopea d’America

  1. Bellissimo libro che, oltre ad allietare i momenti di relax (che la lettura di un buon libro e poche altre cose possono dare), permette anche di arricchire il proprio know how geografico e storico. Ma non solo; questo romanzo insegna a conoscere la natura umana sotto diversi aspetti e dimostra come le opinioni delle persone possono essere totalmente opposte (anche in ambito familiare, dove spesso si tende a “pensarla allo stesso modo”) e come la verità, il giusto e il corretto spesso siano cose relative, perché cambiano in base all’ambiente in cui si vive, alle persone che si frequentano, alle esigenze personali.
    Anche per me queso libro entra nella hit parade dei libri più belli che ho letto.
    Ciao

    1. Sì è vero, l’ambiente sociale in cui nasciamo e cresciamo ha un’importanza cruciale per quanto ci aspetta dopo nella vita; un po’ come dire che senza una buona scenografia, il nostro film sarà modesto… Grande atmosfera soprattutto, in questo libro, e tanta malinconia.

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