Gli abusi della Bassa, una storia vera di ingiustizia

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Gli Abusi della Bassa, una Storia Vera di Ingiustizia – Veleno – di Pablo Trincia.

 

E’ il Gennaio del 1997 quando Dario, un bambino di sette anni, sottratto dai servizi sociali di Mirandola alle cure giudicate inadeguate di una famiglia disagiata della Bassa Modenese, parla alla maestra degli “scherzi sotto le coperte” che il fratello maggiore, Igor, avrebbe fatto alla sorella Barbara; dalle parole casuali di un bimbo “straminato”, che in dialetto modenese significa disconnesso, con la testa fra le nuvole, nasce una vicenda umana e giudiziaria da film dell’orrore, un buco nero di ingiustizia e sofferenza che riempie oscenamente oltre un ventennio di storia italiana, e lo riempie con l’assordante silenzio della paura, della perdita e di quell’infamia, legata a presunti abusi, che marchierà e consumerà decine di persone, distruggerà intere famiglie e deruberà oltre sedici bambini della loro vera vita. Ed è proprio su quel buco nero di due decenni che Pablo Trincia, giornalista e volto noto de “Le Iene”, getta una luce allarmante e tanto attesa, svelando, con “Veleno”, mirabile esempio di giornalismo d’inchiesta, l’orrore di una vicenda talmente incredibile da superare qualunque fantasia, un incubo che cattura il lettore come il più inquietante dei thriller, e lo agghiaccia con la consapevolezza che il potere superficialmente elargito, il potere senza ragione ed empatia, il potere che abbia un fine diverso dal semplice prendersi cura del proprio prossimo, può toccare chiunque con effetti deleteri e devastanti.

I bambini non mentono mai! Incapacità o malafede?

Quella dei Galliera, di cui Dario era l’ultimo arrivato, era indubbiamente una famiglia disagiata, il padre buono a nulla sempre a ciondolare in giro o a spendere quel poco denaro che riusciva a racimolare con espedienti, mentre la madre e i fratelli spesso venivano aiutati dai vicini di casa, Oddina e suo marito, che nei momenti di maggiore difficoltà si occupavano del più piccolo dei Galliera, e che in seguito, soprattutto la combattiva Oddina, si schiereranno contro i servizi sociali e contro quella cascata senza fine di allontanamenti che coinvolgerà oltre 16 bambini, portando a processo e all’incarcerazione innumerevoli genitori, parenti ignari e personalità conosciute e amatissime, come Don Giorgio Govoni, consumato dall’infamia e mancato prima dei processi. Sarà proprio a casa di Oddina che l’autore di questa inchiesta troverà insperatamente un’incredibile quantità di materiale utile a ricostruire la vicenda, dagli atti dei processi denominati “Pedofili 1”, “Pedofili2”, “Pedofili3”, alle lettere che i famigliari imputati o incarcerati si sarebbero scambiati negli anni. Altro prezioso materiale Trincia lo reperirà nell’abitazione di Don Ettore Rovatti, amico e mentore, oltre che strenuo difensore di quel Don Giorgio Govoni, del quale la visionaria incompetenza dei servizi sociali, o forse addirittura la più abietta premeditazione di una combriccola di enti, associazioni e professionisti legati da obiettivi ideologici o fini lucrativi, dipingeranno l’infamante ritratto di un pervertito, addirittura la mente di una setta di pedofili satanisti che compiva abusi su minori e rituali nei cimiteri.

Ma come ha avuto inizio questa incredibile follia? Forse con un nome: Valeria Donati. A un anno dall’allontanamento di Dario dalla sua famiglia, nel luogo dove era stato trasferito, ovvero al Cenacolo Francescano di Reggio Emilia, che ospitava bambini di famiglie povere e problematiche, arriva una giovane psicologa tirocinante di ventisei anni; sarà lei a seguire Dario, e poi Marta, e poi Cristina, e tutti quei piccoli innocenti, figli di famiglie già note ai servizi sociali per motivi anche di poco conto. Pur non conoscendosi tra di loro, dopo qualche mese, puntualmente, i bambini cominceranno a raccontare alla psicologa il medesimo scenario mostruoso di abusi sessuali subiti e inflitti sotto costrizione, di oscuri rituali satanici perpetrati nei cimiteri ai danni di altri minori e culminati con la morte e la dissezione degli stessi. Come una cascata, una confessione portava ad un’altra, un bambino accusava i genitori di un altro bambino, persone che nemmeno conosceva prima di essere affidato alle cure della giovane psicologa; come un contagio, due paesini, Massa Finalese e Mirandola, venivano risucchiati in un vortice malato che portava alla sottrazione immediata di qualunque minore fosse semplicemente nominato da un altro, e di conseguenza, con uguale facilità si aprivano le porte del carcere per i genitori, tanto che a un certo punto l’indignazione della gente si mutava in timore che alzare troppo la voce, farsi notare dai servizi sociali, di cui la giovane e inesperta Donati era divenuto l’intransigente baluardo, significava rischiare di essere a propria volta accusati di qualcosa di ignominioso e di perdere i propri figli dalla sera alla mattina. Le forze dell’ordine arrivavano di notte a prendere i bambini, intere famiglie, dai nonni ai nipoti venivano sventrate per sempre nel giro di poche ore: si ritrovavano tutti in stanzette silenziose ad attendere che un uomo di nome Burgoni, il supervisore della giovane Donati, consegnasse loro un documento che sanciva la sospensione della loro potestà genitoriale. Una psicosi che non ha risparmiato nemmeno qualche avvocato difensore dei genitori caduti in disgrazia, costretto a rimettere l’incarico per non nuocere alla propria famiglia. Il fatto che non ci fossero testimonianze di adulti non pareva scalfire la fiducia, a dir poco sconcertante, che gli inquirenti sembravano nutrire nella dottoressa Valeria Donati, e alla mancanza di qualunque prova materiale sopperiva sempre la testimonianza di una ginecologa di Milano, tale Cristina Maggioni, che dopo aver visitato le piccole vittime confermava puntualmente l’avvenuto abuso, così convinta della propria diagnosi che anche quando, in sede processuale, altri medici confuteranno le sue conclusioni non rilevando alcun abuso dalle foto scattate al tempo delle visite, la difesa che la Maggioni farà del suo operato scadrà nel ridicolo, arrivando a sostenere che in alcuni casi “l’imene può riformarsi”.

Com’è andata a finire? E per quanti, potrà mai davvero finire?

Dopo oltre due decenni, dopo tre processi e innumerevoli condanne per un numero impressionante di anni di carcere, la maggior parte degli imputati vennero prosciolti da ogni accusa, fantasmi ormai senza più una vita, senza famiglia e figli, senza un nome che non fosse gravato dal peso dell’infamia; per non parlare di chi non ce l’ha fatta, morto suicida o sopraffatto dal dolore, o ancora dietro le sbarre. La totale mancanza di elementi o ritrovamenti di qualsivoglia genere fece cadere per prima la pista dei rituali nei cimiteri, ma questo non inficiò la credibilità dei piccoli circa gli abusi subiti tra le mura domestiche, o per meglio dire, le dichiarazioni che era la Donati a riportare agli inquirenti. Tutto passava da questa ventiseienne, e anche quando finalmente arrivarono le assoluzioni e la psicologa venne giudicata giovane e inesperta, le autorità si rivolsero ancora a lei per sapere se i genitori avrebbero finalmente potuto rivedere i figli ingiustamente sottratti; manco a dirlo il responso fu sempre negativo, e non poteva essere altrimenti dato che in tutto quel polverone, la donna e due sue colleghe, garanti del suo lavoro durante i processi, avevano aperto un loro centro, sovvenzionato con fondi pubblici, in cui avrebbero psicologicamente seguito, e influenzato fino alla maggiore età, i bambini che loro stesse avevano portato via alle famiglie d’origine.

Istituzioni manchevoli nella loro ragione d’essere, garantire giustizia e sicurezza ai cittadini.

Dei due decenni passati rimangono gli oltre due milioni di fondi pubblici incamerati da Donati e compagne, e sconcerta che l’evidente conflitto d’interessi non sia mai stato notato dalle autorità, dalle istituzioni che dovrebbero difendere e servire i cittadini, prima di tutto con un assoluto garantismo che tuteli la loro libertà di vivere e avere una famiglia. C’è chi, come Don Ettore Rovatti, scrisse un libro in favore dello scomparso, e poi riabilitato, Don Giorgio Govoni, in cui si evinceva la sua convinzione che le istituzioni di un territorio da sempre politicamente rosso, avessero tramato, o almeno agevolato, un disegno tendente a sminuire e annichilire l’istituzione religiosa della famiglia, in favore di una supremazia laica degli organi educativi. Il fatto che maneggi, sospetti e prevaricazioni si siano protratti fino ai giorni nostri, perpetrate ai danni di minori sballottati da un’associazione a un centro amico, aventi come probabile ed unico fine quello di incamerare fondi pubblici, fa accapponare la pelle, ancor di più se si pensa che alcuni soggetti coinvolti nell’attuale inchiesta di Bibbiano sono i medesimi che compaiono nel libro di Trincia, per esempio il centro Hansel e Gretel di Torino. Chi, come Don Ettore, vuol dunque credere alla malafede della politica, avrà gioco facile nel rintracciare le innumerevoli esternazioni di illustri esponenti di partito, come i Cinque Stelle che a lungo accusarono gli avversari del Partito Democratico di essere “ladri di bambini”, o “quelli di Bibbiano”, in quanto governanti di quegli specifici territori. In questa terribile e confusissima vicenda non si può davvero escludere nulla, ma io personalmente credo che le reali cause di quanto accaduto vadano cercate nelle contraddizioni della nostra nazione, il paese dell’abusivismo che costruisce sulla sabbia, un paese senza alcun senso civico in cui ogni cittadino va per la sua strada con prepotenza e indifferenza, senza occuparsi delle disgrazie altrui o del bene comune; e le istituzioni sono lo specchio di questo malcostume, scatole chiuse non comunicanti, in cui ogni organo svolge il suo lavoretto, disinteressandosi del quadro generale, così se una giovane psicologa si prende tanto a cuore un caso di innumerevoli e incredibili abusi, che coinvolge quasi l’intera popolazione di due paesi, perché non lasciare che se ne occupi come crede? Forze dell’ordine, magistratura, servizi sociali, tutti a seguire la strada tracciata da chi aveva voglia, e chissà, forse obiettivi fraudolenti, per tracciarla. Tutto diviso a scomparti il nostro paese: quando alcuni accusati nel procedimento “Pedofili 2”, e poi nel “Pedofili 3”, vengono assolti, i colpevoli del “Pedofili 1” rimangono tali, pur condannati sulla base delle medesime testimonianze ritenute non più credibili nei due processi successivi. E quei soldi pubblici elargiti per tutto il tempo che un minore rimaneva lontano dalla famiglia d’origine, concessi a chi quei figli li aveva sottratti? E altro ancora, e ancora… La speranza, forse un po’ illusoria, che l’indignazione per questo tragico dramma deve far nascere, è che questo paese possa e debba cambiare, che le istituzioni comincino a comunicare fra di loro, e che chi ha la responsabilità della cosa pubblica e dei cittadini, possa avere tale responsabilità perché se l’è guadagnata, dimostrando veramente di tenere al bene comune e alle persone, e non solo alla propria carriera e al proprio orticello.

I carnefici: due decenni di impunità.

Da quei fatti drammatici sono passati molti anni, e per gran parte di questo tempo la dottoressa Donati ha portato avanti indisturbata il suo centro, grazie alle sovvenzioni pubbliche e a quei bambini a cui ha sempre negato la possibilità di rivedere i genitori, pur assolti con formula piena; nel frattempo ha continuato a operare con gli organi competenti sottraendo bambini abusati alle loro terribili famiglie, riservandosi addirittura il diritto di adottarne uno, altra vicenda confusa e dai risvolti grotteschi e inquietanti… La sua collaboratrice di Milano, la nota ginecologa Cristina Maggioni, dopo i fatti di quegli anni, e in seguito ad altri casi di fantasiosi abusi pepetrati nel capoluogo Lombardo, perse credibilità e venne licenziata dalla Clinica Mangiagalli in cui prestava servizio; aperto dunque un suo studio privato, a tutt’oggi sembra svolgere il lavoro di ginecologa. Facendo una ricerca in Google mi sono imbattuto in qualche scarna informazione, e mi ha incuriosito leggere qualche recensione, dove qualcuno le chiede se ha una coscienza, altri le augurano del male, altri ancora, quelli forse più prevedibili, la galera. Devo ammettere che la consapevolezza che oggi, mentre scrivo questo articolo, persone normali, donne come mia moglie per esempio, in questo momento possono affidarsi a siffatti professionisti, totalmente ignare di ciò che hanno fatto e causato a tanta gente, mi provoca un profondo malessere. Perché l’indifferenza delle istituzioni? Perché mai nemmeno è stata pronunciata la parola radiazione, dopo che gente è morta, ha perso la libertà, la famiglia e l’onore? Perché ci vuole un giornalista brillante e caparbio perché un buco nero di ingiustizia, e forse malaffare, venga a galla dopo vent’anni? E se Trincia non squarciava il velo? Di quanti altri casi, in quanti altri luoghi di questo paese bello e perduto, non si sa ancora nulla?

Le vittime: due decenni di silenziosa sofferenza e paura.

Lorena Morselli è una delle vittime la cui storia, scoperta per caso da Pablo Trincia, ha convinto il giornalista ad indagare insieme alla collega Alessia Rafanelli, per ricostruire i drammatici accadimenti di quegli anni. Lorena era una donna conosciuta e stimata in paese, un’insegnante affidabile a cui la gente si rivolgeva quando aveva bisogno, e così aveva fatto anche il fratello, quando i servizi sociali, incomprensibilmente, gli avevano portato via la figlia Cristina. La donna si era subito attivata e la sua grinta, la competenza, il peso delle sue conoscenze, oltre che della sua rabbiosa indignazione, l’avevano spinta fino ad ottenere un’interrogazione parlamentare: ma il giorno prima della risposta dell’allora ministro della giustizia Diliberto, era stata prontamente messa a tacere dall’estensione a tutta la famiglia delle accuse, in un primo momento rivolte dalla nipote ai suoi soli genitori.  Perse per sempre i suoi tre figli, che per quattro mesi negarono i presunti abusi e pretesero di tornare a casa. Perse i nipoti, figli dei suoi fratelli, perse i fratelli e il padre, tutti arrestati, e dovette trasferirsi in Francia per partorire il quarto figlio che in Italia le avrebbero sottratto appena nato. Persone, famiglie, anni di storia, tradizioni e affetti svaniti per sempre; Lorena non ha mai più incontrato i suoi bambini, nemmeno dopo l’assoluzione del 2014, e suo marito morì prima di sapersi prosciolto. Ma come Lorena ci sono stati innumerevoli uomini e donne che si sono sentiti violentati e deprivati nell’affetto più grande, quello per le proprie creature: Romano Galliera e la sua famiglia, Federico Scotta e la moglie Kaempet, Francesca che non ha retto al peso e si è buttata, Don Giorgio, il prete camionista che trovava casa agli immigrati e a chi non aveva di che campare, Santo Giacco e la moglie Maria, che non usciva mai di casa e parlava solo in dialetto napoletano stretto, e tanti, tanti altri che non avranno modo nemmeno di far ricordare il proprio nome. Il libro di Trincia è la loro storia.

Perché il silenzio dei genitori?

Ma perché, in tanti si domandano, dopo le assoluzioni i genitori non hanno preteso di riavere il sangue del proprio sangue, o almeno di rivedere i propri figli? Anche Trincia si è domandato come potevano questi padri e queste madri accontentarsi di qualche e-mail, una lettera, e forse la risposta migliore è arrivata proprio dalla mancanza di risposta: i figli, non più bambini, non hanno mai risposto, erano piccoli quando furono sottratti alle loro famiglie e crescendo con i genitori adottivi sono divenuti loro creature, e a un genitore che ha sopportato un dolore impensabile, abituandosi con immane fatica ad accettare una perdita, la forza e il coraggio fanno difetto, ma non certo la cautela, il bisogno di salvare il salvabile, di non frantumare quel poco di abitudine che li tiene in vita. Ma sopra ogni cosa, la cautela di un genitore è per il figlio, che sa aver sofferto, sa aver subito un’ingiustizia inconcepibile, e la cautela vuole che il figlio non sopporti ancora, non riviva, non perda una serenità che ha acquisito con la famiglia affidataria. Un genitore che ama sa farsi da parte, soprattutto se chi ha ordito tutto quanto è ancora al suo posto e può fare altro male.

Come può un bambino infamare chi ama?

E ancora, in tanti si domandano, come potevano tutti quei bambini, dopo mesi affidati alle cure dei servizi sociali, accusare improvvisamente genitori amati, di atroci nefandezze? Ebbene un bambino si plasma come la creta, si può imporre una direzione ai suoi pensieri e ai suoi discorsi, suggerire un concetto estraneo che reiterato ad oltranza diventa per il bimbo un ricordo reale, o addirittura, se non attecchito, per certi professionisti non interessati alla verità ma a portare il minore alla conclusione che loro danno per scontata, un ricordo negato e rimosso perché troppo doloroso. E’ un cane che si morde la coda, che ricordi o meno, che ammetta o neghi, il bambino ha subito un abuso se così si è deciso per lui. La Carta di Noto, in quegli anni già in voga in Italia, è un vademecum che indica come psicologi e giudici si debbano muovere per raccogliere le testimonianze dei minori, evitando sostanzialmente quelle domande che possono suggerire o invogliare determinate risposte; esattamente quello che invece non evitarono gli operatori dell’Asl di Mirandola e del Tribunale dei Minori di Modena: applicando la scuola di pensiero del disvelamento progressivo, in voga in quegli anni in America e successivamente messa in discussione anche in quel paese, si partì da frammenti di sogni veri o presunti, o riportati dai genitori adottivi, per arrivare ad interpretazioni arbitrarie che nulla avevano di scientifico se non la costanza con cui vennero sostenute fino a portare i bambini, ormai sfiniti, ad accettarle. Registrazioni di veri e propri interrogatori dimostrano come i presunti abusati, stanchi, indeboliti nel corpo e nell’animo, accoglievano infine i suggerimenti di psicologi e giudici pur di potersi staccare da quell’incubo, e in un caso, che risulterebbe esilarante se non fosse a dir poco grottesco, pur di poter andare al mare, come l’operatrice aveva promesso al minore. Sconvolgente la registrazione in cui un presunto abusato chiede, davanti alla psicologa, all’assistente sociale e al giudice, se va bene quello che ha appena raccontato…

Una speranza nuova per chi non ne aveva più da tempo.

Questa è la storia vera che Pablo Trincia ha svelato all’Italia attonita e purtroppo non sufficientemente consapevole di quanto accaduto e che ancora, forse, accade. E’ la storia delle vittime che il giornalista ha conosciuto, con cui ha parlato, e partendo da semplici nomi ci ha presentato e fatto conoscere delle persone vere, persone normali a cui ci siamo sentiti vicini e solidali, per cui facciamo il tifo, commossi dal peso che ingiustamente li ha gravati e che ancora sopportano. Il pensiero corre a coloro che si sono resi colpevoli di tali atroci sofferenze, e poco importa se il loro operato sia stato dettato da incapacità o malafede, se ci debba essere per loro una punizione oppure solo il biasimo, ma certo ci deve essere la verità: la politica ora la chiede, ma la chiedono anche alcuni genitori che dopo tanto tempo hanno ritrovato il coraggio di alzare la testa, come Federico Scotta, un uomo gentile, premuroso, a cui hanno tolto tutto, che ora avrà la tanto attesa revisione del processo. E la chiedono anche loro la verità, i figli, che ormai adulti si sono fatti domande, hanno cominciato a guardare indietro con timore ai veri genitori, e ancor di più a quei fratelli che non hanno mai rivisto o potuto conoscere… Come Marta per esempio, che ha perso la madre suicida, che è sicura e ha ormai il coraggio di poter raccontare che quelle cose gliele avevano fatte dire. Ma guardano anche avanti adesso, quei figli, a quelle persone che hanno loro mentito, portandogli via il diritto di decidere quale sarebbe dovuta essere la loro vita. I responsabili ora vengono chiamati a rispondere, non sono obbligati e dunque qualcuno non si presenta, ma ormai sono troppi coloro che sanno e che pretendono giustizia. Tutti la pretendiamo, e quando non sarà più possibile non presentarsi, saremo un po’ più sollevati, e ancora penseremo a loro, a quei bambini ormai adulti violentati nell’anima, se non nel corpo, da coloro che avrebbero dovuto salvarli. Allora li avremo vicini, nei pensieri, nel cuore, e ci commuoveremo nel sentirci esattamente come loro, infinitamente fragili, ma finalmente amati.

 

Quella sera ero seduto sul letto. Era tardi. I miei figli Yasmine e Sebastian dormivano nella loro cameretta. Il telefono sul comodino ha iniziato a vibrare, una videochiamata. Erano Marta e Carlo, insieme, che sorridevano imbarazzati e mi salutavano. Non avevo parole. Quando la telefonata è finita ho passato mezzora a fissare il vuoto. E per la prima volta, dopo parecchio tempo, ho pianto anch’io.

 

“Veleno” è una lettura potente e coraggiosa, necessaria, per non dimenticare, per dire mai più.

Luca

 

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paginerecensioni-abusi-Bassa-copertinaVeleno. Una storia vera
Pablo Trincia
Editore: Einaudi
Anno 2019|pag296
€18,50
EAN9788806240066

 

 

Il libro.

Alla fine degli anni Novanta, in due paesi della Bassa Modenese separati da una manciata di chilometri di campi, cascine e banchi di nebbia, sedici bambini vengono tolti alle loro famiglie e trasferiti in località protette. I genitori sono sospettati di appartenere a una setta di pedofili satanisti che compie abusi e rituali notturni nei cimiteri sotto la guida di un prete molto conosciuto nella zona. Sono gli stessi bambini che narrano a psicologi e assistenti sociali veri e propri racconti dell’orrore. La rete dei mostri che descrivono pare sterminata, e coinvolge padri, madri, fratelli, zii, conoscenti. Solo che non ci sono testimoni adulti. Nessuno ha mai visto né sentito nulla. Possibile che in quell’angolo di Emilia viga un’omertà tanto profonda da risultare inscalfibile? Quando la realtà dei fatti emergerà sotto una luce nuova, spaventosa almeno quanto la precedente, per molti sarà ormai troppo tardi. Ma qualcuno, forse, avrà una nuova occasione.

 

L’autore.

Ha lavorato come inviato e autore per la carta stampata, la tv e il web. Nel 2017 assieme alla collega Alessia Rafanelli ha scritto il podcast Veleno, un’audio-serie investigativa di enorme successo, pubblicata in otto puntate su La Repubblica.it. L’inchiesta ha riaperto il caso dei Diavoli della Bassa Modenese, uno dei piú oscuri e controversi della cronaca giudiziaria italiana. Veleno. Una Storia Vera (Einaudi, 2019) è il suo primo libro.